Il magistero sulla pace: La buona scelta della non violenza (Parte 10 di “La PACE nella SACRA SCRITTURA e nel MAGISTERO della CHIESA”)

Il rifiuto della violenza e il ripudio della liceità morale della difesa violenta sono oggi sostenuti anche nel mondo cattolico.
Il problema non è se sia da raccomandarsi la non violenza: è fin troppo chiara nella Rivelazione, ove l’episodio della spada, al momento dell’arresto di Gesù, è presente in tutti i quattro i vangeli e ogni volta Gesù rinuncia alla difesa armata (anche Luca 22,36 va interpretato come invito a equipaggiarsi in modo rinnovato e adeguato al tempo della crisi).
Il problema è se sia da condannarsi moralmente la legittima difesa armata.

Storicamente l’idea della non violenza assoluta fu propria della Chiesa dei primi tre secoli.
I cristiani facevano obiezione di coscienza alla guerra e all’esercito.
Gli scritti dei Padri e gli atti dei martiri obiettori, come Massimiliano e Felice, dimostrano che la Chiesa si sentiva identificata in tali testimoni: essa aveva interiorizzato tutte le indicazioni di amore attivo non violento espresse nel discorso della montagna, specie di amore al nemico.
Ippolito e Ireneo fanno assoluto divieto, al soldato divenuto cristiano, di fare violenza e di uccidere per qualsiasi ragione, mentre escludono drasticamente dal catecumenato chi opta volontariamente per il servizio militare o il magistrato che ha diritto di vita e di morte.
“Il Signore, disarmando Pietro, ha disarmato il soldato ” (Tertulliano).
Questa posizione tanto originale non si spegnerà mai del tutto nelle comunità cristiane.
Risulterà però marginale a seguito della svolta costantiniana, anche a livello di riflessione teologica.
L’imperatore divenuto cristiano tutela la Chiesa.
Così la difesa dell’impero viene a coincidere con la difesa della Fede e della Chiesa.
E siamo alla teoria della giusta guerra.
L’identificazione teorico – pratica tra pace di Dio e pace della cristianità porterà poi alla guerra santa o di crociata e alle guerre di religione.
Estinguere chi ostacola l’instaurazione della pace del Vangelo, chi non si converte, non rappresenta un omicidio, ma un malicidio (San Bernardo).
La non violenza assoluta è riemersa in ambienti protestanti, per una lettura fondamentalista dell’imperativo morale personale di non uccidere, tipica dei Testimoni di Geova e dei Quaccheri.
La dottrina di Gandhi comporta la non – violenza come scelta di educazione politica e morale dell’avversario, e soprattutto come lotta, arma di impegno politico e sociale.
E siamo all’obiezione di coscienza al militare, preoccupati delle sorti della famiglia umana, oltre che per impegno morale personale.
Questo è un grande passo avanti, evento ed esperienza morale del tutto nuova nella storia, soprattutto perché si tratta di un impegno attivo: si deve difendere il povero, l’oppresso, la Patria dall’ingiusta aggressione, ma con strumenti non fisicamente violenti.

Nel pensiero cattolico e gerarchico tutto ciò sta faticosamente maturando, frenati per un secolo dalla paura della rivoluzione di tipo più o meno marxista, e dalla difficoltà di superare l’idea di guerra giusta, per vedere invece i problemi dell’umanità nel suo complesso.
Così si spiega come l’impegno della morale cristiana per l’assoluta non – violenza è ancora ambiguo e condizionato da modelli culturali che conosciamo.

A livello di ricerca e di alto magistero le cose stanno meglio: quanto più si comprende la radice della violenza nei modelli culturali di relazioni interumana e interstatuale, tanto più emerge la potenza dell’arma della non – violenza come vera e forse unica arma culturale.
Tuttavia sarà ben difficile che la giusta e decisiva conversione alla non – violenza possa tradursi in un divieto assoluto di violenza difensiva, accada ciò che può.
Pur convintissimo di dovermi opporre alla cultura di guerra, al militare in ogni sua forma: ciò non implica necessariamente la convinzione del dovere morale, senza eccezione, di rinuncia a ogni difesa violenta.
La non – violenza dovrà essere il principio generale di comportamento, da promuoversi in ogni modo, però possono presentarsi situazioni in cui la coscienza potrai e dovrà decidere in senso diverso.

Penso al caso in cui uno si trovi ad avere responsabilità di difesa di altri, incapaci di scelta autonoma (bimbi di una famiglia o di una scuola).
Io posso, o meglio, devo rinunciare per me stesso al diritto di legittima difesa, ma posso rinunciare a difendere altri di cui ho responsabilità?
Oppure penso al caso di una comunità oppressa in tutti i diritti fondamentali dell’uomo e dei popoli, che non trovi altra via possibile per uscirne, anche con tempi lunghi: per esempio il genocidio degli indios dell’Amazzonia,  i neri del Sud Africa, palestinesi nati e fatti adulti in campi di concentramento, sottoposti a ogni pensabile sopruso e violenza.
Quando esiste una forte coscienza popolare, che si abbia tentato il proprio riscatto umano con ogni via pacifica senza risultato, pagando duramente tali tentativi e si vede preclusa ogni speranza in tempi ragionevoli, non si dovrebbe condannare come non lecito il ricorso alla violenza.
Finché è ragionevole, si deve dissuadere, ma nessuno, che non sia coinvolto personalmente nella situazione, può giudicare e condannare: così Pio XI in una lettera apostolica all’episcopato messicano nel 1931 e Paolo VI nella “Populorum Progressio”.
In positivo, invece, incombe sull’annuncio cristiano il compito gravissimo di predicare la non – violenza, come unica base realistica della pace, come base realistica dei rapporti tra stati.
E incombe il compito di studiare e trovare e praticare con decisione vie di difesa attiva non – violenza.